“Chi si ammala avrebbe tanto da dire:
la zona tra oblio e ossessione è zona di consapevolezza profonda,
è un costante equilibrio funambolico”.
(C. Candiani, “I visitatori celesti”)
La sindrome di Ménière e la sintomatologia delle vertigini vedono cambiare scenario nel campo della medicina occidentale, soprattutto tra la fine dell’800 e gli inizi del 900. Proprio in questo periodo storico accadono due avvenimenti importanti nel considerare queste due patologie: il primo riguarda il passaggio dal ritenere le vertigini come un unico gruppo di malattie piuttosto ampio, caratterizzata dalla perdita di equilibrio con il termine di “apoplectiform cerebral congestion”1 (congestione cerebrale apoplettiforme), a una differenziazione diagnostica sempre più accurata nel tempo; il secondo cambiamento, invece, riguarda l’esclusione della “Teoria umorale” di Ippocrate nell’eziologia delle patologie, fin dal IV secolo a.C., accettata e applicata dalla maggior parte dei medici, che ritenevano la mente e il corpo come unica realtà, senza considerare la malattia come un elemento puramente organico2.
A fronte di questi cambiamenti storici significativi in campo medico-scientifico, come counselor oggi mi pongo le seguenti questioni:
- Se prendessimo nuovamente in seria considerazione le conoscenze più vaste e antiche del“padre della medicina” (Ippocrate 460/377 a.C.) con quali occhi verrebbe vista la sindromedi Ménière, le diverse malattie annesse a sintomi di vertigini o barcollamento, le cure e i pazienti stessi?
- In che modo il counseling può cambiare la vita in termini di benessere e salute a persone con queste tipo di patologie? L’interesse e la curiosa ricerca di osservazione e di ascolto antropologico avvenuta in questi due ultimi anni con persone con sindrome di Ménière o diagnosi differenziali annesse a disturbi dell’equilibrio, nasce dalla personale storia con diagnosi di Sindrome di Ménière nel 1999, all’età
di 16 anni, e successivamente anche con quella di “vertigine emicranica” (2007), come diagnosi differenziale. La mia esperienza terapeutica è caratterizzata da un lungo percorso di psicoterapia, che mi ha guidata pian piano a prendere nuovamente contatto con me stessa, a riascoltare il mio mondo interiore, le emozioni e i miei bisogni, attuando una vera e propria trasformazione, che mi ha permesso successivamente di transitare da un perenne sentimento di impotenza (non posso farcela), alla fiducia del mio potere personale, strettamente connesso all’ascolto e alla modulazione delle mie emozioni.
Questo lungo lavoro personale di “Conosci te stesso. Possiedi te stesso. Trasforma te stesso”, come direbbe il padre della psicosintesi R. Assagioli, non solo mi ha portato “casualmente” ad una remissione della patologia da 7 anni, ma ha anche permesso di pormi delle domande riguardo alla conoscenza della Sindrome di Ménière e delle vertigini, di osservare l’eventuale file rouge tra le persone con queste patologie, e di constatare nel counseling un grande strumento nel prendersi cura di sé, della crescita e del cambiamento personale, tanto da poter essere inserito in un approccio multidisciplinare delle malattie con vertigini, e nel trattamento del benessere psicofisico del paziente in ambito sociosanitario.
Che cos’è il counseling?
Il counseling è un’attività professionale o una scelta di vita come lo definisce M. Danon3, che tende a orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità della persona, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolandone la capacità di scelta e autorealizzazione. E’ anche definita una pratica o un’arte che consente di stabilire una costruttiva relazione di aiuto tra il counselor (una persona esperta, addestrata all’ascolto, al supporto e alla guida) e un cliente (il soggetto che ha bisogno di essere aiutato) in situazione di momentanea difficoltà o crisi personale (separazioni, lutti, malattie, passaggi evolutivi, decisioni importanti), che può essere sostenuta nell’esplorazione del proprio disagio allo scopo di riattivare il contatto con le proprie risorse personali per un’efficacia risoluzione dei problemi.
La persona viene così “aiutata ad aiutarsi”, senza dipendere da interpretazioni, consigli o direttive fornite da un altro, per quanto “esperto” possa essere, principalmente attraverso l’ascolto, l’empatia, le abilità, gli strumenti, e l’esperienza di vita del counselor.
L’importanza del counseling si inserisce all’interno delle professioni di aiuto, poichè il sostegno, la cura, e l’aiuto reciproco appartengono alla natura stessa dell’essere umano, e risale in quanto tale alla notte dei tempi, a partire dalle società e culture antiche. Tuttavia possiamo far risalire la sua nascita agli inizi del ‘900 negli Stati Uniti come specifica attività professionale, e in Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento, crescendo e sviluppandosi all’interno della psicoterapia.
Un contributo fondamentale è stato dato dalla psicologia Umanistica fondata da Carl Rogers che ha avuto la necessità di riportare l’individuo al centro del proprio mondo, riconoscendogli potenzialità di autodeterminazione, crescita e trasformazione, passando così da un modello centrato sulla malattia a uno orientato sulla salute dell’individuo, con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita e di accrescere la competenza della società in relazione alla salute.
Il counseling con le sue caratteristiche specifiche, inizia a dimostrarsi fin da subito efficace nell’aiutare chi fa fatica ad affrontare e superare difficoltà di varia natura, che riguardano la gestione più o meno complessa di ordinarie e straordinarie problematiche collegate al vivere sociale.
Gli ambiti di intervento possono essere molteplici, tra cui quello medico o socio-sanitario, offerto da professionisti per supportare pazienti e le famiglie, durante i periodi di malattia o difficoltà della salute. In particolare, il counseling come metodo di relazione non direttivo compare in Italia per la prima volta tra gli anni ’80 e ’90, proprio in ambito sanitario, a seguito della diffusione dell’Aids. Ed è proprio su questa spinta sociale che la figura del counselor interviene a sostegno dei malati, come supporto e guida alla gestione della malattia, delle complicanze, della riduzione del danno, e della prevenzione dei comportamenti a rischio o altre patologie.
Il counseling socio-sanitario consiste pertanto in una relazione di supporto, che aiuta i pazienti e le loro famiglie ad affrontare le sfide legate alla malattia, disabilità, e cambiamenti significativi della vita; offre un punto di riferimento sicuro e presente durante tutto il percorso di cura, aiutando a comprendere notizie complesse e dolorose, e a gestire le emozioni e le difficoltà quotidiane.
Il suo intervento, quindi può avere diversi scopi, attraverso tre specifiche macro aeree: promozione alla salute e al benessere, intesi come integrazione di mente, corpo e affetti; la prevenzione, attraverso cui il counselor informa ed educa il cliente; supportivo, nel sostenere il malato e la famiglia durante le fasi della malattia, dalla diagnosi alla guarigione, e nell’accettazione e la gestione delle situazioni di crisi, soprattutto in casi di malattia cronica4 .
Essendo la salute un concetto che non riguarda solo il singolo, ma l’intera comunità, è fondamentale che soprattutto in questo contesto il counselor intervenga in un lavoro di rete, che coinvolga quindi il cliente, la sua famiglia, ed il personale medico sanitario, in un’ottica di supporto che sostenga il malato.
L’intervento sul cliente in questa visione viene così inquadrato in una cornice più ampia, nella quale il medico non è onnipotente, la medicina non è perfetta, ed i limiti si possono fronteggiare attraverso il riconoscimento dell’autonomia del malato, che supportato dal lavoro di rete, può scegliere, cambiare, informarsi, consapevolizzarsi, e decidere, soprattutto quando la cura non è ancora del tutto certa.
Il counseling socio-sanitario può essere dunque inserito all’interno di equipe multidisciplinari, dove il counselor può operare a supporto del malato, attraverso incontri individuali e/o di gruppo, della famiglia, o dell’equipe stessa, per esempio nell’analizzare problematiche in ambito professionale e relazionale. In conclusione, sappiamo che nelle malattie croniche, come la Sindrome di Ménière, lo sviluppo è incerto e imprevedibile fin dal principio, ed i sintomi, tra i quali la perdita di equilibrio
improvvisa, causano uno sconvolgimento nella quotidianità della persona. Il clima di incertezza, e di difficoltà a prevedere e a controllare il decorso della patologia, si verifica per il fatto che essa è spesso caratterizzata da periodi di latenza, dove fanno da protagoniste forti emozioni come l’angoscia, l’ansia, la rabbia, la paura, la tristezza, fino a toccare la disperazione, il terrore, ed il dolore nella riacutizzazione dei sintomi.
Da questo scenario, se prendessimo nuovamente in considerazione la visione di Ippocrate e quella più vasta della malattia, troveremmo di grande importanza porre al centro la persona, e non solo la malattia stessa; la cui differenziazione diagnostica può rassicurare nel riconoscimento di una diagnosi, ma tralascia il paziente nella sua interezza e totalità.
Una possibile via questa, che tende a migliore la qualità di vita delle persone, nell’ascolto del corpo, del cuore, della mente, e della sofferenza dell’anima, e che vede aprirsi la porta alla mente, ma soprattutto al valore umano, alla relazione, e all’umanizzazione della cura.
Dott.ssa Valentina Chiodi
1 G. Ralli, “Storia della malattia di Ménière”, Dipartimento di Organi di senso, Università di Roma “La Sapienza”, 2005, www.giovanniralli.it
2 Gema Sanchez Cuevas, “La teoria umorale di Ippocrate”, 2023, www.lamentee meravigliosa.it
3 M. Danon, “Counseling, la relazione che promuove la crescita personale”, Milano, Red!, 2014
4 Cicirelli P.B., Il counseling in ambito sanitario con persone affette da malattie croniche, youcanprint, Lecce, 2021